Il pretesto è un resoconto di Marco Polo all’imperatore Kublai Kan del regno che ha attraversato e delle città che ha visto e conosciuto, tutte identificate da nomi femminili vagamente classicheggianti.
In effetti lo scopo è quello di far giungere il lettore in un’altra dimensione, in cui l’aggancio con la realtà si affievolisce per lasciare spazio allo sviluppo della fantasia secondo la volontà di ognuno.
Così è possibile leggere descrizioni di questi agglomerati urbani, completamente diversi l’uno dall’altro, perché diversi sono i loro abitanti, non coincidenti sono le loro necessità e i loro desideri.
L’avveniristico nelle sue opere è un ritorno a un mondo più a misura d’uomo, un rientro nel perfetto ordine della natura da cui con il tempo ci siamo allontanati .
Del resto nel “Barone rampante” quella vita vissuta sugli alberi del bosco, anziché rinchiuso fra le quattro mura domestiche, è una metafora di un evidente ritorno a una primigenia libertà che l’essere umano, nel tempo, ha sacrificato in funzione di un gretto principio di tornaconto, così come l’armatura che rinserra il “Cavaliere inesistente” richiama la spersonalizzazione dell’uomo che trascorre molto del suo tempo fra le lamiere di un automobile.
I primitivi all’inizio vivevano in una grotta, poi costruirono capanne, magari le une vicine alle altre per evidente difesa, ma conservando così quel principio di libertà che rende l’umano isolato quando vuole, senza togliergli la possibilità di contatto con i suoi simili. Le attuali città, fatte da condomini di molti appartamenti, finiscono invece con l’essere celle di un alveare in cui trascorrere il minor tempo possibile.
Rigide le norme che, se da un lato regolamentano la convivenza,a volte la limitano fortemente. Si conosce tutti e non si conosce nessuno; in strada c’è lo stesso scenario di una vita frenetica in cui le possibilità di contatto sono sporadiche, un saluto, per educazione, e via.
Quindi in Calvino il fantastico non è una società avveniristica e tecnologica, ma un ritorno al passato, un desiderio, forte, ma anche sussurrato, affinché l’uomo ritrovi la sua strada e la sua naturale collocazione.
L’intento dell’autore non è solo quello di darci una rappresentazione metafisica della realtà, ma anche di stimolare le nostre percezioni sensoriali affinché possiamo costruire un nostro libro sul suo libro partendo dalla base che ci viene offerta.
Si auspica la visione di una città che dovrebbe essere funzionale agli uomini che ne fanno parte e al centro del tutto proprio essi.
Soltanto così il grande agglomerato urbano non assume i connotati di un semplice dormitorio destinato progressivamente a svuotarsi, ma uno spazio in cui, anziché relegare i suoi abitanti, li proietti verso una libertà sempre più ampia.
Il vivere comune non deve essere motivo di un isolamento individuale, perché in caso contrario la città muore e i suoi abitanti, già morti dentro, l’abbandonano. Ritorna quindi un tema, cioè quell’incomunicabilità a cui sembra destinata sempre di più l’umanità.
Emma Di Stefano
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